Sulle tracce dei ghiacciai - diario di bordo

Sulle tracce dei ghiacciai - diario di bordo

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Ultimo aggiornamento marzo 2021

Il progetto fotografico scientifico "Sulle tracce dei ghiacciai" di Fabiano Ventura si avvale del contributo di fotografi e scienziati per coniugare comparazione fotografica e ricerca scientifica al fine di analizzare gli effetti dei cambiamenti climatici partendo dall’osservazione delle variazioni delle masse glaciali. Fino ad ora il progetto ha analizzato 65 ghiacciai nelle catene montuose più importanti del pianeta fra le quali il Karakorum, il Caucaso, l’Alaska, le Ande, l’Himalaya e le Alpi, realizzando 200 confronti fotografici e 9 programmi di ricerca.

Il progetto prevede per ogni spedizione la ripetizione di scatti fotografici eseguiti dallo stesso punto di osservazione e nel medesimo periodo dell’anno di quelle realizzate dai fotografi-esploratori di fine ‘800 e inizio ‘900, con l’intento di contribuire a sviluppare attraverso una comunicazione visiva una sempre più ampia consapevolezza dell’impatto che le attività antropiche hanno sul clima.

Maggiori informazioni e ulteriori immagini sono reperibili sul sito www.sulletraccedeighiacciai.com 

Karakorum 2009 

29 luglio 2009, volo Islamabad-Skardu: siamo diretti a nord, verso il Baltistan e Skardu, la “porta del Karakorum”. L’indomani, una giornata di trasferimento in jeep attraverso le spettacolari valli dell’Indo, dello Shigar e del Braldo ci porta ad Askole, l’ultimo avamposto civilizzato lungo il percorso verso il ghiacciaio Baltoro: un gigante di 60 chilometri, il quinto al mondo per lunghezza.

Da Askole partiamo per le due tappe di trekking più lunghe, trenta chilometri che copriamo in due giorni a quote relativamente basse (3.100-3.400 metri) e con un caldo intenso, a volte oltre i 30 gradi. Poco prima di raggiungere il campo di Payu, appena aperta la visuale sul Baltoro, abbiamo ripetuto una fotografia realizzata da Massimo Terzano, fotografo della spedizione del Duca di Spoleto del 1929: a 80 anni di distanza non si notano a prima vista grandi cambiamenti sulla fronte del ghiacciaio. 

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Il giorno dopo ci avviciniamo alla fronte per ripetere una delle immagini più famose di Terzano. Qui constatiamo con rammarico che probabilmente sarà una delle ultime occasioni per godere di questo spettacolo incredibile: l’area del masso Terzano appare scalzata alla base a causa dell’erosione del fiume Baltoro, e a breve il masso sembra destinato al crollo.

Nei giorni successivi continua l’esplorazione attorno al Baltoro. Il 4 agosto, grazie alle approfondite ricerche bibliografiche, iconografiche e cartografiche condotte in preparazione della spedizione, riusciamo a localizzare lo stesso punto fotografico della bellissima panoramica del Baltoro, realizzata sempre da Terzano. 

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Dopo una settimana di trekking sulle infinite morene del Baltoro, arriviamo allo splendido anfiteatro di Concordia a quota 4.650 metri, una delle piazze glaciali più grandi del mondo, circondata da alcune delle montagne più alte della terra, fra cui il K2. Qui allestiamo il nostro campo base, come le prime spedizioni italiane del 1909 e del 1929, e subito iniziamo le attività di studio e di ricerca dei punti fotografici storici, integrati dai sopralluoghi necessari per poter valutare le difficoltà tecniche della salita, e per segnare le esili tracce che seguiremo di notte, durante le ascese per raggiungere le vette in tempo per sfruttare le ore di luce migliore.

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Il 13 agosto partiamo dal campo base alle due del mattino, con i nostri tre portatori d’alta quota e con la nostra guida. Avanziamo su ghiaioni molto ripidi. Dopo dieci ore siamo in vetta, a quasi 5.500 metri, stanchi ma felici per essere riusciti a raggiungere un altro luogo mitico: da questa stessa vetta Massimo Terzano ha realizzato, ottant’anni prima, una splendida immagine panoramica a 270° del circo di Concordia, utilizzata tutt’oggi dai glaciologi per studiare la dinamica dei ghiacciai, anche in relazione ai cambiamenti climatici.

Ripetiamo questa importante immagine per poterla offrire alla comunità scientifica e migliorare la nostra comprensione dei meccanismi che guidano la vita dei ghiacciai. 

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Dopo una puntata di due giorni al campo base del K2, servita per alcuni rilievi geografici, si avvicina il momento di intraprendere il lungo viaggio di ritorno, che con circa 60 chilometri di trekking, in cinque giorni ci riporterà al villaggio di Askole. Siamo soddisfatti, quasi tutti gli obiettivi della spedizione sono stati raggiunti. Torniamo con un ricco bottino di immagini e informazioni, e siamo certi di poter fornire alla scienza un ottimo confronto per capire le possibili fluttuazioni del ghiacciaio nell’ultimo secolo: a prima vista, confrontando la visione attuale con le immagini del 1929, la fronte sembra aver subito una significativa perdita di spessore, benché in termini di arretramento si possa considerare stazionaria.

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Caucaso 2011 

30 luglio 2011: quest’anno la spedizione ci porta nel Caucaso georgiano. L’obiettivo è raggiungere il ghiacciaio Tviberi, un importante debris-covered glacier, ovvero “dalla fronte coperta di detrito morenico”, per monitorare con una speciale strumentazione il suo andamento di fusione, e ripetere alcune fotografie scattate da Mor Von Dechy nel 1884 e da Vittorio Sella nel 1890 ai ghiacciai più significativi della regione, come lo Tszaneri, il Kazebi, il Chalaat, il Leskir e il Lardaadi Adishi.

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Il 2 agosto, dopo un’intera giornata di ricerca su terreni al limite della praticabilità, ritroviamo il punto dal quale Vittorio Sella realizzò uno storico scatto al Chalaat, che con la sua fronte raggiunge la quota più bassa dell’intera Georgia, 1860 metri. La ricognizione, oltre a dimostrare che il Chalaat è fortemente arretrato (di circa 3 chilometri, con una perdita di spessore di 200 metri), è servita per constatare l’impossibilità di raggiungere il Leskir: i ponti per attraversare il torrente sono crollati, il sentiero è stato inghiottito dalla vegetazione e l’imponente ritiro frontale del ghiacciaio ne ha modificato la morfologia della fronte rendendola del tutto inaccessibile.

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A cavallo di Ferragosto, per ripetere la magistrale immagine di Vittorio Sella del Lardaadi Adishi, uno dei più spettacolari ghiacciai della Svanezia, siamo stati costretti a un’impegnativa spedizione di tre giorni, con portatori e cavalli.

Raggiunta fra enormi difficoltà la fronte del ghiacciaio a fondo valle, abbiamo potuto effettuare rilievi delle numerose morene latero-frontali che testimoniano il dinamismo e la reattività ai cambiamenti climatici di questo colosso di ghiaccio. L’arretramento della fronte rispetto alla massima espansione storica, avvenuta con molta probabilità prima della metà dell’800, è di poco più di un chilometro, mentre ben più evidente è la perdita di spessore dell’intera lingua valliva. La contrazione relativamente contenuta, rispetto agli altri ghiacciai della regione, è forse dovuta alla quota elevata (ben oltre i 4.000 metri) dei due bacini di accumulo.

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L’ultimo obiettivo fotografico della spedizione è la ripetizione della celebre fotografia panoramica realizzata da Vittorio Sella 121 anni prima dalla vetta del monte Banguriani, a quota 3.885 metri. Una volta in cima, la stanchezza della salita svanisce e l’emozione di affacciarsi sul lato opposto è intensissima. Il panorama che mi circonda è mozzafiato. Osservo le sette immagini di Sella che ho portato con me come riferimento visivo, e immediatamente noto i forti arretramenti e i collassi dei tanti ghiacciai circostanti: alcuni dei più piccoli sono completamente scomparsi.

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Al termine il bilancio della spedizione, che ha richiesto due anni di studi preliminari e di organizzazione logistica e oltre un mese di attività sul campo, è il seguente: quattro ghiacciai principali esaminati, venti fotografie di confronto realizzate dalla medesima prospettiva di quelle storiche, numerosi rilevamenti strumentali, tre ricognizioni in elicottero.

A pochi giorni dal rientro, sono già evidenti i primi risultati sulla base dei confronti fotografici e delle osservazioni scientifiche: i ghiacciai della catena del Caucaso mostrano purtroppo notevoli arretramenti delle fronti e altrettanto cospicue perdite di spessore.

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Alaska 2013

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27 luglio 2013. La squadra raggiunge il campo base di Gustavus, piccolo villaggio che funge da base logistica e ingresso al Glacier Bay National Park, dove si concentreranno le attività fotografiche. Prima di poter entrare nel parco è stato necessario seguire un corso per poter affrontare in sicurezza la wilderness: il Glacier Bay è una riserva integrale dove l’uomo si trova in completo isolamento, e l’orso nero e il grizzly sono una presenza costante che non va mai sottovalutata.

Come primo obiettivo ci dirigiamo verso le pendici del Mount Wright per ripetere la storica foto del ghiacciaio Muir scattata da Frank La Roche nel 1893, esattamente 120 anni prima.

Avanziamo in una vegetazione fittissima, e trovandoci in una riserva integrale ci è concesso solo spostare i rami senza danneggiarli: con gli zaini appesantiti dal materiale fotografico impieghiamo più di un’ora per percorrere un chilometro. Risalendo uno stretto canyon arriviamo a uno splendido colle dove il panorama spazia dal Mount Fairweather, 4.600 metri di quota, fino al ramo orientale di Glacier Bay. I ghiacciai sono ora lontanissimi, oltre 50 chilometri più a nord, mentre a fine ‘800 occupavano quasi tutto l’orizzonte visivo.

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Nei giorni successivi, l’obiettivo è di ripetere alcune fotografie della fronte del ghiacciaio Muir, realizzate nel 1891 e nel 1941. Dopo l’avvicinamento in barca, prendiamo terra e siamo costretti a un incontro ravvicinato con un grizzly. In seguito, riusciamo a individuare il punto da cui William O. Field aveva scattato la sua fotografia nel 1941: la fitta vegetazione non ci permette di farla dallo stesso punto, ma la prospettiva è identica.

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Dopo qualche giorno riusciamo a raggiungere un’altura del White Thunder Ridge sulla quale, 300 metri a picco sul fiordo, nel 1941 Field posizionò la sua storica stazione fotografica. All’epoca le fronti dei ghiacciai Muir e McBride erano unite e quasi a portata di mano, mentre oggi si scorge appena la fronte del McBride. Ripeto le immagini di Field e mi rendo conto dei grandi cambiamenti del paesaggio in pochi decenni.

Quando le condizioni meteo si annunciano favorevoli, decidiamo di dedicare alcuni giorni a una ricognizione in barca nel West Arm, punto di partenza per salire alle vette da cui l’esploratore A. J. Brabazon, nel 1894, scattò varie fotografie che riprendevano la confluenza dei due maggiori ghiacciai di Glacier Bay, il Grand Pacific e il Johns Hopkins. Riusciamo anche a raggiungere il ghiacciaio Reid, dove, legati in cordata, saliamo coi ramponi per effettuare dei monitoraggi e scattare alcune immagini degli enormi crepacci molto aperti sulla fronte, che ci aiuteranno a capire se questo ghiacciaio, come ipotizzato dal nostro glaciologo Riccardo Scotti, si trovi in una fase di avanzata.

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Il 27 agosto, dopo quattro settimane sul campo, il bilancio della spedizione è un successo: 28 confronti fotografici, sei panoramiche, tutte le immagini georeferenziate e soprattutto la documentazione sull’incredibile ritiro dei ghiacciai. In poco più di un secolo, le fronti del Johns Hopkins e del Grand Pacific sono arretrate di oltre 15 chilometri, mentre quella del Reid di tre e mezzo. Secondo l’opinione dei glaciologi, l’impressionante disgregazione della calotta di Glacier Bay dalla Piccola Età Glaciale a oggi ha comportato una perdita di volume di 3.450 chilometri cubi, che equivalgono a un innalzamento degli oceani di un centimetro.

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Ande 2016 

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21 febbraio 2016: siamo nel Parco Nazionale Torres del Paine, in Cile, alla ricerca del punto esatto da cui Alberto Maria De Agostini, l’esploratore salesiano che lavorò in Patagonia e Terra del Fuoco per oltre mezzo secolo (dal 1910 al 1960), scattò la sua fotografia delle celebri vette.

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Al mattino presto selliamo i cavalli e arriviamo velocemente fino al limitare del bosco, a circa 750 metri di quota. Portando con noi uno dei cavalli carico degli zaini, con l’attrezzatura raggiungiamo la sella. Qui il vento è molto forte e proseguo da solo sulla cresta fino alla vetta. Posiziono cavalletto e fotocamera fra mille difficoltà, le raffiche superano i 120 chilometri orari, fa molto freddo e ho le mani intorpidite. Il momento dello scatto è come sempre emozionante: approfitto di un raggio di sole per esporre la lastra e subito dopo mi rendo conto che, proprio come nella foto storica, le cime di una montagna sulla sinistra dell’inquadratura sono coperte dalle nuvole. 

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Il 20 marzo ci raggiungerà il team dei ricercatori del dipartimento di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma e dei glaciologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università Statale di Milano per realizzare le attività scientifiche previste.

Intanto il nostro prossimo obiettivo è il Parco Nazionale Los Glaciares in Argentina, dove si svolgerà il lavoro più importante di tutta la spedizione.

Qui decidiamo di cominciare dal ghiacciaio Upsala, il secondo più grande di tutta l’Argentina, anch’esso fotografato all’epoca da De Agostini. Una volta giunti al punto di ripresa scelto dall’esploratore, la vista sulla valle è mozzafiato. È una conca lunga 90 chilometri e larga 10, e facendo il confronto con le immagini storiche è sconfortante constatare come una valle così ampia si sia completamente svuotata dal ghiaccio in poco più di 80 anni.

Nei giorni successivi prosegue il lavoro di ripetizione delle foto storiche sul ghiacciaio Ameghino (anche in questo caso il ritiro è notevole, dove prima c’era una lunga lingua bianca ora c’è una valle detritica e una laguna lunga almeno quattro chilometri che arriva fino all’attuale fronte).

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Nella zona di El Chaltén sulle mitiche montagne del Fitz Roy e del Cerro Torre il primo obiettivo fotografico è la vetta del Cerro Polo, dalla quale cerco di ripetere la panoramica di De Agostini che ritrae l’intera skyline del Fitz Roy da una posizione frontale. In vetta inizio la ricerca del giusto punto di ripresa con le foto storiche in mano, e lo trovo solo dopo molti tentativi. Dal confronto tra l’immagine storica è evidente come la parte terminale del ghiacciaio Blanco abbia perso diverse centinaia di metri.

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In seguito ripeto le foto storiche di De Agostini anche dal Loma de las Pizarras e dal Mirador Maestri, con vista mozzafiato sul Cerro Torre: il ghiacciaio Torre è arretrato frontalmente in modo drammatico e ha perso moltissimo spessore.

Il 18 marzo ci ricongiungiamo col team di ingegneri e geologi italiani in Cile, per poi proseguire alla volta del ghiacciaio Exploradores, dove verranno condotte le attività scientifiche e di modellazione delle fronti glaciali in 3D, cruciali per lo studio delle conseguenze del cambiamento climatico.

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Himalaya 2018

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24 aprile 2018: partiamo per il lungo avvicinamento al campo base nord del Kangchenjunga, la terza montagna più alta del mondo. Siamo immersi nella foresta pluviale nepalese, e i ghiacciai sono ancora lontani. Il primo obiettivo è il Jannu, dove cercheremo di raggiungere il punto da cui Vittorio Sella scattò una panoramica della fronte durante la spedizione italo-inglese di William Freshfield del 1899, ma dobbiamo rimandarlo al ritorno per via di una forte nevicata. 

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Nel frattempo, mentre avanziamo verso il campo base riesco ad individuare il luogo esatto da cui Sella riprese, in uno dei suoi straordinari scatti, la confluenza di due ghiacciai, il Kangchenjunga e il Ramtang. Il confronto con la foto storica evidenzia il cambiamento drammatico: più di cento anni fa i due ghiacciai confluivano in un’unica fronte, ora non si toccano più.

Il 4 maggio arriviamo al campo base, a 5.100 metri di quota.

Nei giorni successivi, con molta fatica, troviamo il luogo da cui Vittorio Sella scattò una delle sue più spettacolari foto panoramiche del ghiacciaio Kangchenjunga. Ci troviamo a 5.452 metri e il paesaggio è veramente mozzafiato, ma purtroppo si nota bene la sua trasformazione: il ghiacciaio si è abbassato di circa 200 metri. 

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Da Kambachen, dove ci siamo accampati per la notte, risalendo un ripido pendio per circa 500 metri ritrovo il luogo da cui Vittorio Sella, 119 anni prima, scattò una delle sue eccezionali foto, quella del ghiacciaio Jannu: anche in questo caso la mia inquadratura combacia perfettamente, salvo che la fronte del ghiacciaio oggi si trova più di un chilometro a monte rispetto al 1899. 

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Ci spostiamo poi in Tibet, dove ci sistemiamo al campo base dell’Everest, a 5.200 metri.

Da qui risaliamo la morena sinistra del ghiacciaio Rongbuk. La quota si fa sentire, siamo costretti a fermarci più volte, finché arriviamo al punto, sui 5.500 metri, in cui penso di poter ripetere una fotografia storica selezionata dagli archivi della Royal Geographical Society. La perdita di spessore è evidente. Al centro del ramo principale del ghiacciaio si è creato un enorme lago glaciale, effetto dello scioglimento superficiale. 

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Nei primi giorni di giugno siamo al campo base del Cho Oyu, la sesta montagna più alta del mondo. Ci accorgiamo subito che sarà molto difficile attraversare il ghiacciaio Gyarag, a causa del collasso della sua parte centrale. Decidiamo di provare a raggiungere la vetta di una montagna sopra la fronte, a circa 5.700 metri, da cui ripetere la fotografia più importante, scattata dal maggiore E. O. Wheeler. In vetta, la ricerca del punto giusto in cui posizionare la fotocamera non è semplice: la sommità di questa montagna è molto vasta e senza punti di riferimento riconoscibili sulla foto storica. Dopo diverse salite e discese riesco a trovare i giusti allineamenti tra le grandi pietre a terra e alcune creste rocciose sopra la morena del ghiacciaio. L’inquadratura è corretta e sarei pronto a scattare, ma l’orario non coincide e le ombre non sono nella stessa posizione rispetto a quelle della foto storica. Devo aspettare ancora un’ora, benché faccia molto freddo, ma la fotografia esige il rispetto rigoroso dei tempi, se si vuole ottenere un risultato preciso e dal valore scientifico. 

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Alpi 2020 

24 luglio 2020: a Courmayeur, in Val d’Aosta, comincia la spedizione. Saliamo al rifugio Elena in Val Ferret, ai piedi del Monte Bianco, per ripetere lo scatto del 1920 di Jules Brocherel del Pré de Bar. Il giorno seguente l’obiettivo è il Miage, tra i più estesi ghiacciai neri delle Alpi. Su un altipiano sopra al rifugio Elisabetta ripetiamo uno scatto della collezione di Agostino Ferrari del ghiacciaio Lex Blanche.

29 luglio: oggi è un giorno speciale. Avevo promesso alle mie figlie, Miriam e Lara, che le avrei coinvolte nella spedizione, e così è stato: averle trovate così appassionate nel pianificare con me l’escursione mi ha commosso. Dalla valle di Gressoney saliamo al Corno del Camoscio (3026 metri), dove ripeto una fotografia di Vittorio Sella dei ghiacciai Bors e Indren, scattata nel 1892. Quello che rimarrà impresso per sempre nella mia memoria è il ricordo di una giornata di condivisione con le mie figlie, una sorta di passaggio di consegne fra due generazioni unite simbolicamente per testimoniare gli effetti del cambiamento climatico.

8 agosto: per la prima volta vedo dal vivo la parete est del Monte Rosa, e non immaginavo che fosse così imponente. Di grandi montagne ne ho viste e fotografate tante durante le mie spedizioni in Himalaya e in Karakorum, ma ora capisco perché questa viene considerata la “parete himalayana” delle Alpi. Qui si allenarono Walter Bonatti e i suoi compagni per la spedizione al K2.

Il giorno dopo, all’alba, uno spettacolo unico: la parete più grande delle Alpi illuminata dai primi raggi del sole si tinge di rosa-arancione, lasciandoci estasiati. Realizzo 4 scatti che comporranno la fotografia panoramica a 180 gradi della valle di Macugnaga e del ghiacciaio Belvedere scattata da Sella nel 1895. Sul Belvedere i fratelli Wehrli avevano scattato una fotografia del ghiacciaio: l’intero anfiteatro sotto la parete est è collassato.

15 agosto: siamo in Lombardia. Arrivati sulla vetta del Sasso Moro (3108 metri) mi metto alla ricerca della posizione esatta da cui Alfredo Corti aveva realizzato la sua immagine del ghiacciaio Fellaria, e mi rendo conto che aveva poggiato la fotocamera a terra o utilizzato dei sassi al posto del cavalletto, costringendomi a una posizione molto scomoda. Stringo i denti e con acrobazie degne di un contorsionista proseguo nella realizzazione di questa complicata ma fondamentale immagine. Il ghiacciaio si è diviso in due sezioni dando vita a una lingua glaciale e l’intera valle, abbandonata quasi interamente dal ghiacciaio, ha cambiato completamente la sua morfologia con la comparsa di un enorme lago.

20 agosto: alle 4 e 30 siamo già in marcia verso la Cima Occidentale dei Forni (3227 metri). L’aria è fresca e ci sprona mentre saliamo immersi in uno splendido bosco di larici illuminato solo dalle luci delle nostre frontali. Mentre scolliniamo nella conca della Manzina sopraggiunge un’alba meravigliosa, con le vette circostanti illuminate dall’improvvisa luce calda del mattino e riflesse nell’azzurro delle acque del lago. Uno spettacolo indimenticabile. Ripeto gli scatti di Sella del 1895 con una vista imponente del gruppo dell’Ortles e del ghiacciaio dei Forni.

25 agosto: l’attività sull’Adamello parte dalla fronte del ghiacciaio Mandrone, lingua terminale dell’ampio bacino glaciale. Nei pressi della grande scarpata rocciosa, 100 anni fa completamente sepolta dal ghiacciaio, ripeto l’immagine scattata da un ignoto fotografo austriaco nel 1897. Al posto della lingua glaciale sono rimaste una brulla falesia rocciosa e un pianoro fluvioglaciale.

1 settembre: finalmente raggiungiamo le Dolomiti, dichiarate “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO per le loro caratteristiche ambientali, paesaggistiche e naturalistiche. Lo scenario è tanto avvincente quanto desolante: il ghiacciaio della Marmolada è uno dei primi destinati a scomparire a causa del riscaldamento globale.

2 settembre: dalla Punta Mesolina si gode una straordinaria vista sulle Dolomiti; qui venne realizzata un’importante fotografia panoramica del ghiacciaio della Marmolada. Il ghiacciaio superava i 4 km2 e formava un mantello ininterrotto su tutto il versante nord della Marmolada, con tre larghe fronti. Oggi il ghiacciaio si estende per poco più di 1 km2 e il suo spessore si è ridotto di molte decine di metri con le fronti arretrate di centinaia.

4 settembre: in viaggio verso il Friuli-Venezia Giulia attraversiamo le valli più colpite dalla tempesta Vaia che ha abbattuto milioni di abeti in soli 4 giorni nel 2018. Lo scenario è impressionante e anche in questo caso risaltano inequivocabilmente gli effetti distruttivi del cambiamento climatico.

5 settembre: la Bila Pec è un contrafforte con uno straordinario affaccio verso il Canin, da cui Arturo Ferrucci, alla fine dell’800, scattò una fotografia panoramica dei ghiacciai del Canin e dell’Ursich. Oggi il ghiacciaio si è smembrato in piccoli corpi glaciali definiti “glacionevati”.

11 settembre: l’ultima tappa della spedizione è al Gran Sasso. Queste montagne sono la mia seconda casa, le ho frequentate in ogni stagione negli ultimi 30 anni. Sono emozionato di concludere questa lunga e affascinante avventura in un luogo per me così importante.

13 settembre: l’alba ci accoglie con colori meravigliosi e la parete est del Corno Piccolo illuminata da un intenso rosso fuoco. Una breve ferrata con affaccio sulla meravigliosa Val Maone e i Pilastri d’Intermesoli ci porta al punto da cui Enrico Abbate realizzò una delle prime fotografie del ghiacciaio del Calderone nel 1886. All’epoca, qualche decina di metri sotto la Vetta Occidentale iniziava il ghiacciaio che scendeva lungo tutto il vallone; oggi la parete precipita verticalmente per un centinaio di metri per raggiungere un ripido pendio di pietraie. Il confronto è sconvolgente paesaggisticamente ma anche per la fruizione: 20 o 30 anni fa si sciava lungo il vallone anche d’estate, ma ora il bacino del ghiacciaio è diventato una pietraia impraticabile.

Sulla sommità mi avvicinano alcuni ragazzi. Vedendo le fotografie storiche sono stupiti e tristi: non possono credere che il paesaggio sia cambiato così drasticamente e in così poco tempo. Per sempre.

 

Testi liberamente tratti da: “I diari di viaggio di Fabiano Ventura © 2009 - 2020”