Giro Under 23: Davide Cassani e la voglia di pedalare

Giro Under 23: Davide Cassani e la voglia di pedalare

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Il Giro d'Italia Giovani Under 23 è nel vivo da qualche giorno: una corsa serrata, che si chiude il 23 giugno, con l'arrivo al Passo Fedaia, e che sta mettendo in mostra i migliori giovani ciclisti italiani e internazionali. A rilanciare la manifestazione, sponsorizzata da Enel e tra le più importanti al mondo per la categoria, è stato il commissario tecnico della nazionale, Davide Cassani. Grande ciclista negli anni '80 e '90, una seconda vita da commentatore e divulgatore di questo sport, prima di prendere in mano gli Azzurri nel 2014. Lo abbiamo raggiunto al telefono (pedalava, ovviamente) per parlare dei suoi inizi, della sua carriera e di tutto quello che ha imparato in sella a una bici.

Partiamo dall'inizio: la prima bicicletta, la prima pedalata?

Ho dovuto aspettare i quattordici anni per la mia prima bicicletta, mio padre non me la comprava. La passione però nacque nel 1968, quando mi portò a vedere un campionato del mondo vicino a casa, a Imola. Vinse Vittorio Adorni. La mia prima pedalata, la prima impresa, è stata due anni dopo. Avevo nove anni e con il parroco del paese, Don Pierino, andammo da Solarolo al Circuito del tre monti, lo stesso dei campionati del mondo. I miei primi 15 chilometri in bicicletta, avevo anche chiesto a mia madre di cucirmi una maglia da corsa con tanto di tasche. Così è cominciata la mia avventura, ho iniziato a sognare di diventare professionista, fare un Giro, un campionato del mondo.

Cos'è stata la bicicletta per lei?

È stata ed è tuttora la mia vita. Una grande passione, che si è trasformata in un lavoro magnifico, che mi ha permesso di realizzare i miei sogni.

Quanto coraggio ci è voluto in questo percorso?

Alle passioni non si comanda, ho lasciato che lei mi indicasse la strada. Quando hai una passione sei fortunato, perché sai esattamente cosa fare. Io ce l'ho messa tutta, con un po' di fortuna e tanta buona volontà ho realizzato quei sogni, 12 Giri d'Italia, 9 campionati del mondo e, nonostante gli 800mila chilometri che ho percorso, sono ancora qui a pedalare.

Il primo debutto fu come la gioia di un abbraccio da tutte le madri del mondo, ha scritto.

Abitavo in campagna, in bici andavo a scuola, al paese, ovunque. Ho sempre avuto un rapporto straordinario con la bici. Solarolo è in provincia di Ravenna, cinque chilometri sotto la Via Emilia, che divide la pianura dalle colline che vedevo lontanissime. Il giorno in cui ho oltrepassato la via Emilia e ci sono arrivato mi sentivo come Colombo quando ha scoperto l'America. E continuo a scoprirci il mondo.

La tappa più bella?

La prima vittoria, la Bologna-Monghidoro da allievo. O quando ho vinto una tappa al Giro nel 1991, mi premiò Rita Levi Montalcini, un premio Nobel che mi passava la coppa e i fiori. La prima vittoria al Giro dell'Emilia, nel 1989, quel giorno mio figlio compiva un anno, per la prima volta sua madre lo portava a vedere una mia corsa.

Come si gestisce l'euforia di una vittoria?

Per conquistarla servono mesi di allenamenti. Sono secondi, attimi, la vittoria svanisce nello stesso istante in cui la ottieni. Ti rimane dentro il traguardo che hai raggiunto, ma cinque minuti dopo pensi come fare per ottenere una gioia simile e ti dai da fare per provare di nuovo quelle emozioni straordinarie.

Dove si trova l'energia per rialzarsi dalle sconfitte?

I ciclisti sono abituati, si parte in 150, 200 e vince uno solo. Quando sono passato al professionismo ho impiegato sette anni per vincere la prima corsa. Ma non mi sono mai dato per vinto, nemmeno quando al primo anno un dolore al ginocchio minacciava di porre fine alla mia carriera. Il ciclismo è uno sport in cui nessuno ti regala nulla, devi dare anima e corpo e abituarti alle difficoltà.

L'importante è continuare a credere...

Sempre. Concentrarsi, allenarsi, capire i motivi per cui non si ottengono risultati. Nei momenti di difficoltà hai un rapporto strettissimo con quello che hai dentro, che aiuta a superare i momenti difficili.

Il più difficile per lei fu l'incidente del 1996, quando ha dovuto ripensare la sua vita.

A una certa età inizi a sapere che prima o poi il ciclismo professionistico termina, stai già immaginando il dopo. È stato un trauma, ma quando un mese dopo la Rai mi ha chiesto di lavorare con loro, si è chiusa una porta e aperto un portone. È cominciata una seconda vita sportiva.

Poi ci fu il passaggio da commentatore ad allenatore…

Quando il presidente della Federazione mi ha chiesto di diventare commissario tecnico mi è tornato in mente il me bambino che nel 1968 vedeva un campionato del mondo. Diventare commissario tecnico, dopo aver avuto come maestro Alfredo Martini, che lo era stato per 23 anni, è stato realizzare un altro sogno.

Rilanciare il Giro Under 23 è stato uno dei suoi obiettivi. Perché?

Io sono diventato professionista anche grazie a un Giro dilettanti. Un direttore sportivo mi vide e mi diede questa opportunità. Da cinque anni non veniva organizzato un evento così e mi sono reso conto che il nostro movimento poteva crescere solo con una corsa dura, impegnativa, con alla partenza i migliori under del mondo.

Che differenze vede tra i giovani ciclisti di oggi e quelli della sua generazione?

Oggi sono più preparati, vanno più forte, sono semi-professionisti, non c'è nulla che sia lasciato al caso, si confrontano con australiani, colombiani, russi, è tutto più internazionale rispetto al mio ciclismo dilettantistico. C'è un livello più alto, più strutturato. Ai miei tempi tanti ragazzi smettevano di andare a scuola per correre, oggi la maggior parte arriva alla maturità e alcuni proseguono anche con l'università. E fanno bene.

Qual è la lezione più importante che un non ciclista può imparare dal ciclismo?

Per raggiungere traguardi bisogna lottare e contare soprattutto su se stessi, dopo le salite ci sono sempre le discese, bisogna comunque andare avanti. Per ottenere risultati bisogna fare le cose bene e con le cose fatte bene i risultati prima o poi arrivano.